L’Egitto trionfa fuori dai confini, non solo musica e cinema: Malek e Mahmood sono l’esempio del Paese giusto. L’integrazione va premiata, è il caso di dirlo. Quest’anno manco a farlo apposta su due tra i palchi più prestigiosi del mondo ricevono il premio due egiziani, o meglio un italiano ed uno statunitense.

La rivelazione di Mahmood
Il primo, un certo Alessandro Mahmood, la notte del 10 gennaio viene proclamato vincitore della 69esima edizione del Festival di Sanremo, dinanzi allo stupore generale. Tra fischi, urla ed applausi un po’ “stonati” Mahmood, artista di soli 26 anni riceve il Leone d’Oro dal sindaco della città di Sanremo. Ultimo esce dal palco con il broncio, il Volo applaude, mentre ammette amaramente la caduta. Una rivelazione per tutti, nessuno in effetti se l’aspettava, eppure quel giovane delle periferie di Milano, di padre egiziano e con qualche canzone per Mengoni alle spalle, ce l’ha fatta.
Bohemian Freddy
Poche settimane dopo, giusto la notte tra il 24 ed il 25 febbraio, a 10.128,84 km di distanza, un altro ragazzo egiziano, vince l’Academy Award. Si chiama Rami Malek ed è il premio Oscar come migliore attore protagonista per l’interpretazione nel film “Bohemian Rhapsody” del personaggio di Freddy Mercury. Niente da aggiungere, la platea del Dolby Theatre di Los Angeles lo inneggia con un fragoroso applauso. I familiari, cristiani copti, provenienti dal villaggio dell’Alto Nilo, esultano. Per loro adesso è un nuovo faraone, un’idolo da aggiungere al Maradona d’Egitto, il calciatore (musulmano) del Liverpool Mohammed Salah.
Prima generazione
Nel suo discorso l’attore 37enne ha ricordato di essere “figlio di immigrati dall’Egitto, americano di prima generazione”, “orgoglioso” delle sue radici e di “rappresentare” il Medio oriente: “Invecchiando – ha aggiunto – capisco quanto sia prezioso il mio patrimonio ereditario e la mia tradizione”.
Casualità, s’intenda, in quanto si tratta sicuramente di coincidenze, non si offendano Emma Bonino e Laura Boldrini, oltre che il comprensorio democristiano.
Talenti integrati
Queste due vittorie fanno però riflettere in quanto rappresentano non solo la magnificenza del lavoro consacrato come vincente (su Sanremo resta qualche dubbio), ma anche il modello della buona integrazione. Il paradigma Mahmood-Malek può essere preso quindi come modello di misura artistica, ma anche politico, quello della buona integrazione, quello di italiani e statunitensi che hanno apportato, attraverso i loro talenti, un valore aggiunto ai paesi che li hanno ospitati.
Multiculturalità d’arte
Queste vittorie sembrano una risposta alle molteplici polemiche che inondano il web, interessando l’utenza più vasta, quella che si prepara quotidianamente sul ring dei social e combatte a colpi di tastiera la battaglia per la medaglia d’oro d’indignato del giorno, quella di bronzo per l’umanità e l’argento per la multiculturalità. Non è la prova che l’integrazione fa bene, ma che la buona multiculturalità arricchisce e non deve e non può spaventare. Mahmood, ad esempio, con Soldi ha portato all’Ariston, per la prima volta nella storia, una commistione di sound, a metà tra l’asiatico e l’occidentale, confezionando un prodotto a misura di new generation, lontano da ciò che fu un tempo Sanremo.
Fino a dove?
Certo, può piacere o meno l’idea che a trionfare sia stato lui per la qualità del brano, ma resta evidente l’aggiunta di un plusvalore all’accezione sanremese e, per esteso, alla cultura musicale italiana. Esistono in Italia ed in America molti Malek e Mahmood che aggiungono e non tolgono, abbelliscono e non deturpano. Resta da capire, quale sia l’unità di misura di questo valore aggiunto stabilita dalle sinistre, da quella fetta d’umanità che grida “Restiamo umani”. Fino a dove?
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