La crisi del settore della stampa, trascinato a fondo dalla cattiva convergenza economico-finanziaria, si fonde con la crisi della professione-funzione giornalistica. Da un lato abbiamo i giornali che non riescono più a pagare i loro giornalisti, dall’altro abbiamo un mestiere che dovrebbe raccogliere, verificare, analizzare e gerarchizzare le informazioni. Il difficile inserimento nel settore del giornalismo e il confronto costante con l’avanzare dell’informazione offerta dai nuovi media (troppe volte poco filtrata, di scarsa qualità) sono elementi destabilizzanti. Se a ciò aggiungiamo i costanti attacchi alla stampa provenienti dalla politica, dall’imprenditoria, talvolta anche dalle istituzioni, e il pericolo alla democrazia costituito da fake news e bufale, il quadro è completo.
Il paradosso è che mai come oggi, probabilmente, la società che ci circonda ha bisogno di informarsi correttamente ed avrebbe perciò di conseguenza sempre più bisogno di giornalisti. Invece, oggi si assiste ad una vera e propria “dilettantizzazione” della categoria. I compensi sono scesi molto al di sotto della soglia di sussistenza, raggiungendo il puro valore simbolico (il caso dei collaboratori dei quotidiani è il più emblematico). Inoltre, il meccanismo del “giornalistificio”, che ha aperto a tutti le porte dell’Ordine con pochi e semplici criteri, ha fatto sì che la professionalità sia man mano scomparsa a favore del piacevole hobby. La crisi, però, ha coinvolto tutti gli attori del settore, dall’editore ai responsabili di un foglio d’informazione, dai giornalisti ai lettori.
I giornali
Il mercato italiano dei media è sempre stato caratterizzato da un forte legame con interessi non esclusivamente editoriali: la politica e l’imprenditoria. Questo ha portato a prestare una maggiore attenzione ai gruppi di pressione coinvolti, piuttosto che dare voce ai cittadini. È probabilmente in questo rapporto che si annidano i difetti più gravi dei media italiani (e non solo): nella mancanza di un confronto serio con il pubblico. Con il web le cose sembrano essere un po’ cambiate: chiunque abbia l’accesso alla Rete ha la possibilità di esprimere i propri pensieri. Ma questa nuova forma di libertà rende l’utente anche più indifeso, senza mediazioni.
La comunicazione
Il nostro Paese, forse soprattutto grazie (o a causa) dei contributi statali per la stampa, non ha mai recepito la lezione di Walter Lippmann datata 1922. “Un giornale può maltrattare un inserzionista, può attaccare un potente interesse bancario o commerciale, ma se si aliena le simpatie del pubblico che ha potere di acquisto, perde il solo patrimonio indispensabile alla sua esistenza. Un corpo di lettori che resti fedele, nei tempi buoni come nei cattivi, è una forza maggiore di quella di cui può disporre il singolo inserzionista e una forza abbastanza grande per spezzare una combinazione di inserzionisti”.
Il digitale
Nell’attuale momento storico il lettore è disincantato, il giornalista è sfruttato, stanco e poco professionale e la qualità dell’informazione deve fare i conti con l’interesse economico del settore e il rispetto della verità. Riscoprire l’etica potrebbe essere la chiave di tutto con una sorta di autoregolamentazione che coinvolga proprietari dei media, editori, direttori, giornalisti ed utenti dei media. Il continuo confronto tra le parti potrebbe fare in modo che ognuno diventi cosciente delle proprie potenzialità, degli errori fatti e degli obiettivi da perseguire per continuare a migliorarsi. E, in questo caso, per ripartire.