Chiusa l’inchiesta sul depistaggio del pentito Vincenzo Scarantino circa l’omicidio di Paolo Borsellino e al via il processo nei confronti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Tre poliziotti. Per aver dato questa notizia, il 13 settembre al giornalista di La Repubblica, Salvo Palazzolo, è stata perquisita la casa, sequestrato il telefono, passato al setaccio il computer.
Lo scorso marzo, il corrispondente siciliano esperto di mafia ha raccontato dell’accusa di calunnia che pende sugli agenti i quali, insieme all’ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, morto nel 2002, avrebbero fatto pressioni su Scarantino. “Mi davano i verbali con degli appunti scritti a penna. Mi facevano studiare anche il libro di Buscetta, che spiegava le regole dell’affiliazione a Cosa nostra e altri argomenti che non conoscevo”, ha dichiarato il pentito. “E se c’erano dubbi sulle cose da dire ai pm, sarebbe bastato chiedere di andare in bagno. Lì, avrebbe trovato i poliziotti a suggerire”, scrive Palazzolo. Non solo: rimane il mistero attorno ad un “infiltrato” all’interno della polizia, a cui la moglie del pentito Santino Di Matteo fece rifermento nel dicembre 1993. E ancora – si chiede il giornalista – perché “La Barbera era a libro paga dei servizi segreti? Anche questo hanno scoperto i magistrati di Caltanissetta.”
“È in corso in tutta Italia un attacco durissimo contro la libertà di informazione e contro i cronisti liberi che con il loro lavoro garantiscono ai cittadini il diritto ad essere informati. Le fughe di notizie e le presunte violazioni del segreto istruttorio non possono essere contestate ai giornalisti, il cui dovere è quello di pubblicare tutto quello che ha rilevanza per l’opinione pubblica, non certo quello di nascondere le notizie”, commenta il sindacato unitario.
Anche Reporters Sans Frontières condanna le azioni richieste dal procuratore di Catania e invita a spiegare la “grave violazione del segreto delle fonti”. È indispensabile che i professionisti come Salvo Palazzolo “possano continuare ad investigare senza timore dell’autorità giudiziaria”, avverte Pauline Adès-Mével, responsabile della zona Ue-Balcani di Rsf.
Il redattore del quotidiano di Eugenio Scalfari ha dunque la colpa di aver svolto il proprio lavoro: dare la notizia. Perché, sì, un processo a carico di uomini delle istituzioni accusati di aver depistato le indagini sulla strage di via D’Amelio è una signora notizia. Gli operatori dell’informazione sono spesso sotto attacco. Non accertano le fonti, diffondono bufale, trasformano la realtà pur di vendere e, infine, ricopiano le veline di palazzo per darle belle e fatte in pasto ai lettori: la critica feroce in questi casi è sacrosanta.
Accade poi che, quando gli addetti ai lavori fanno il proprio mestiere muovendosi tra ufficiale e ufficioso, ricostruendo la verità dei fatti al di là dei comunicati, senza smettere di fare domande, vengono accusati di rivelazione di segreto d’ufficio. Ma quale riserbo incombe su un processo che sta per iniziare? E ammesso che la violazione ci sia stata, non può essere il reporter ad aver commesso il reato. Perché, invece, non aprire un’indagine interna alla procura per individuare la bocca a cui è sfuggito il segreto? I pubblici ministeri, le forze dell’ordine, dovrebbero essere coscienti del diritto-dovere dei giornalisti di pubblicare “anche” altro da ciò che arriva dagli uffici stampa istituzionali.
Fatti diversi e ulteriori che concorrono a mantenere l’equilibrio tra i poteri democratici. Ma nel Belpaese gli equilibri sono precari, allora può succedere che i pilastri della democrazia si confondano e la giustizia vada su due binari: uno silente, che segue le regole della procedura – e prima ancora della Costituzione –, l’altro mediatico, che orienta la pubblica opinione secondo le necessità profilatesi. E guai destabilizzare gli assetti: si rischia di finire indagati.
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