Sono 52 i milioni destinati al finanziamento pubblico per l’editoria, 54 i giornali che ne beneficiano, ma l’80 per cento dei fondi va a 20 testate. Avvenire, Libero, Italia Oggi, Il Manifesto e il Quotidiano del Sud i maggiori beneficiari. Ad occuparsene nei giorni scorsi con un’inchiesta intitolata “Un equo finanziamento”, è stata Report, la trasmissione di Rai 3 condotta da Sigfrido Ranucci.
Avvenire, edito dalla Conferenza Episcopale Italiana, usufruisce di quasi 6 milioni l’anno di finanziamento diretto. 90 i giornalisti assunti regolarmente, 80mila abbonati, “tanti saranno parrocchie, e per questo è tra i più letti in Italia dopo Corriere, Repubblica e La Stampa.”, spiega l’autore dell’inchiesta Bernardo Iovene. “Il contributo copre parzialmente le perdite, il giornale costa 40 milioni ma ne incassa solo 20: 4 milioni dalle edicole, 13 milioni dagli abbonati e 3 milioni e mezzo dalla pubblicità.”
Poi tocca a Libero. Controllato per il 60 per cento dalla Fondazione San Raffaele, costituita per volontà della famiglia Angelucci. Non ha scopo di lucro, è apolitica ed apartitica. Per il 40 per cento, invece, c’è la finanziaria Tosinvest, sempre degli Angelucci. Senza il contributo statale, “Libero chiuderebbe i battenti il giorno dopo, – come spiega il giornalista finanziario Fabio Pavesi – perché il giornale ha patrimonio netto solo per 700mila euro. E ha debiti per 21, di cui 10 nei confronti della presidenza del Consiglio.”
Il capostipite è Antonio Angelucci, rieletto alle ultime elezioni nelle file di Forza Italia, è parlamentare dal 2008. “Tosinvest è proprietaria delle testate di Libero, del Tempo e dei vari Corriere dell’Umbria, Viterbo, Rieti, Siena, Arezzo. Soltanto Libero prende un contributo dallo Stato, dati 2016, 3 milioni 764mila euro l’anno.” Angelucci senior “ha una condanna di primo grado a 1 anno e 4 mesi proprio perché prendeva indebitamente doppi contributi sia per Libero che per il Riformista.” Dunque, Libero versa un milione l’anno per dieci anni alla presidenza del Consiglio, di cui è debitore, la stessa però gli eroga 3 milioni e 764mila euro l’anno.
Tre milioni e 63mila euro l’anno al quotidiano comunista Il Manifesto. Cooperativa no profit, non ha un editore. 12mila copie al giorno, 50 dipendenti tra giornalisti e poligrafici, tutti con lo stesso stipendio. Class editori, che pubblica Italia Oggi e Milano Finanza, Quotidiani, e poi Class e Capital, e periodici con vari inserti, ha un finanziamento diretto di 4 milioni 844mila euro l’anno. È stato possibile accordarle il contributo in quanto la maggioranza del capitale della srl, il 50,1 percento, è di una cooperativa. Il 49 per cento, invece, fa capo a Paolo Panerai, editore di Class Editori, gruppo quotato in borsa con Milano Finanza.
“Non si capisce perché una testata che fa di fatto riferimento a Panerai, l’imprenditore che è il proprietario della Class, quotata in borsa, debba prendere il contributo pubblico, 4,8 milioni, li riceve la testata grazie ad uno spostamento della quota dell’uno per cento. Poi Libero, la Tosinvest, la finanziaria di famiglia degli Angelucci, dichiara di essere la proprietaria della testata, il rimanente 60 per cento fa riferimento alla fondazione San Raffaele che è sempre degli Angelucci, i reali delle cliniche. Anche qui non si capisce a che titolo debba prendere dei contributi.
Poi c’è l’immobiliarista Mainetti con la Foglio edizioni è di fatto il proprietario indiretto del Foglio. Riceve contributi, 800 mila euro ogni anno perché di fatto che cosa ha fatto Mainetti? Ha affittato la testata ad una cooperativa. A capo c’è Giuliano Ferrara. Ma di questi 800 mila euro di contributi 250 tornano a casa a Mainetti perché oltre alla testata ha affittato alla cooperativa anche un immobile di sua proprietà. E poi ha tentato anche di dettare la linea editoriale, la linea politica al giornale, ma gli ha detto male perché ha trovato un direttore con la schiena dritta, Cerasa. Il cittadino fa riferimento alla curia come abbiamo visto ma qui c’è una nota stonata: ecco perché la società ha investito in polizze vita ed è un’anomalia perché per una società che ha la curia come editore dovrebbe aspirare più al bene spirituale che a quello temporale, e invece di investire nella finanza, soprattutto con il contributo pubblico.
Poi c’è L’Avvenire che è posseduto all’80% dalla Fondazione di San Francesco d’Assisi e da Santa Caterina da Siena, prende contributi più elevati di tutti, 6 milioni di euro, senza i quali se la vedrebbe brutta e soprattutto i soci privati, quindi i vescovi e Pesenti che ha una quota del 3 per cento sarebbero costretti a ricapitalizzare.”, commenta il conduttore Sigfrido Ranucci.
Contributi per costi telefonici, spese postali per gli abbonamenti, per un totale di 140 milioni, briciole rispetto al passato. Briciole di cui anche i grandi gruppi godono e di cui dovranno fare a meno.
È quanto afferma Vito Crimi, sottosegretario alla presidenza del Consiglio che ha confermato la volontà di eliminare i contributi diretti e indiretti all’editoria. Ancora da stabilire i modi e i tempi, ma l’azzeramento sarà graduale per consentire alle aziende di rivedere i propri piani industriali. Il sistema editoriale, spiega Crimi, ha ingurgitato tanti soldi, ma non è stato capace di adeguarsi al mondo che cambiava. “Dobbiamo garantire il diritto all’informazione. Perché è un diritto sancito dalla Costituzione. E non è detto che si deve fare finanziando gli editori. Per esempio un’idea che vorrei portare avanti è di utilizzare quei fondi per finanziare la domanda. Proviamo a incentivare dei giovani, magari, o anche degli anziani ad acquistare abbonamenti digitali ai quotidiani.”
Tutt’altro discorso per il perno della filiera editoriale: il giornalista. Articoli pagati 2, 3, 5, 8 euro lordi. Professionisti che lavorano cinque o più giorni la settimana con “stipendi” che non arrivano a 1000 euro al mese, anche dopo anni e anni di collaborazioni continuative. Crimi ha sostenuto una modifica del Jobs Act presentata da Liberi e Uguali su proposta del sindacato dei giornalisti che prevedeva l’esclusione della professione dai contratti co.co.co., consentendo “al giornalista un accesso a una cassa autonoma con contribuzioni e tutte le tutele che può avere, che sia la maternità, che sia la malattia, che siano le ferie.” Ma il suo stesso governo, nel decreto dignità, ha bocciato l’emendamento.
Non è mancato uno sguardo anche alla Rai, in cui il lavoro giornalistico è riconosciuto solo ai telegiornali, il resto ha un contratto di consulenza a partita Iva.
“Le notizie oggi corrono velocemente e mutano durante la giornata più volte, se non si gestisce il passaggio al digitale, la carta stampata rischia di morire. Invece è necessaria una presenza forte della stampa libera e indipendente sul web, perché è sì, un veicolo di libertà, ma il web è un po’ come un bibliotecario ubriaco. A braccetto insieme trovi la notizia vera e la fake, e soprattutto imperano i monologhi dei politici, dei leader, senza contraddittorio. È come se noi ogni giorno staccassimo dalla nostra democrazia un assegno in bianco. È così.
Per questo è necessario finanziare direttamente o indirettamente, veda Crimi, la stampa. Una stampa forte, purché i finanziamenti poi vadano ad alimentare tutta la filiera, vadano a cooperative senza trucchi, a fondazioni senza politici dietro e soprattutto a editori puri! Vadano a editori puri e a cooperative di giornalisti. E soprattutto che non vadano più a quegli editori, che costringono i colleghi intervistati dal nostro Bernardo Iovene a raccontare le loro idee col volto coperto come fossero pentiti di mafia. Perché questa roba, è una cosa che non si può vedere“, conclude Ranucci.
Un boccone amaro per Avvenire che con un articolo accusa Report di aver colpito il bersaglio sbagliato, reo di aver messo in discussione il finanziamento pubblico e, soprattutto, di non aver chiarito che il quotidiano dei vescovi Cei non sfrutta la manodopera come altri beneficiari. Il risultato è, per la testata romana, un attacco indiscriminato alla stampa.
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